Vialli: un attaccante moderno e intelligente che ha saputo reinventarsi

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Vialli: un attaccante moderno e intelligente che ha saputo reinventarsi
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Vialli: un attaccante moderno e intelligente che ha saputo reinventarsiProfimedia
Dai gol alla Sampdoria alla leadership a tutto campo con la maglia della Juventus, fino all'evoluzione definitiva sulla panchina del Chelsea. Nella storia del calcio sono pochi i centravanti che hanno saputo trovare, come lui, la felicità lontano dall'area di rigore

"StradiVialli". Perché, per Gianluca Vialli, segnare non poteva ridursi a un volgare gesto meccanico come può essere quello di spingere un pallone, anche alla bene e meglio, oltre la linea di porta. Ed è per questa ragione che, ogni volta che ne aveva la possibilità, il centravanti di Cremona, morto stamattina a Londra, provava l'acrobazia. Amante del bello che, secondo lui, diventava ancora più bello se difficile.

La rovesciata alla sua Cremonese, la sforbiciata all'Arsenal, il gol in allungo acrobatico alla Fiorentina, la doppietta con la quale ha steso la Svezia, ma anche la strepitosa 'chilena' contro il Benfica (Coppa Uefa '92-'93) andata a sbattere violentemente sulla traversa davanti agli occhi increduli del Da Luz.

Vialli, però, non è stato solo sinonimo di gol. Anzi. Fino all'arrivo di Vujadin Boskov in panchina, Eugenio Bersellini non era convinto che quella del centravanti fosse la sua posizione naturale. Una verità solo a metà, quella del mitico allenatore emiliano. E già, perché se è vero che, durante l'epoca dorata della Sampdoria, l'attaccante lombardo conquistò tutti con i suoi golazos (vincendo anche il titolo di capocannoniere con 19 reti l'anno dello scudetto), è altrettanto vero che, una volta arrivato a Torino, capì che lontano dall'ala protettrice del tecnico serbo e dagli assist di Roberto Mancini il suo ruolo non poteva limitarsi a quello di goleador. Non se voleva fare il definitivo salto di qualità nella sua carriera.

Anche perché, complici gli infortuni, sembrava aver perso il feeling con il gol. Prova ne siano le 17 reti segnate, in tutte le competizioni, nelle sue prime due stagioni con la maglia della Juventus. L'amarezza per non riuscire a ritrovare l'infallibilità sotto porta dei tempi migliori e la rabbia, mista a dolore, per le critiche ricevute lo portarono a reinventarsi: da bomber a leader a tutto campo, da centravanti vecchio stile ad attaccante moderno, pronto a segnare, ma anche a servire assist e sacrificarsi per i propri compagni.

Ed è anche e soprattutto per questa ragione che i 36 gol realizzati nel successivo biennio, quello dello scudetto e della Champions League, non possono bastare a descrivere la trasformazione del cigno di Cremona nel calciatore totale che ha trascinato i bianconeri, con il suo carisma e la sua polivalenza, sul tetto d'Europa.

Se c'era da correre, era sempre il primo a farlo e quando c'era bisogno di un tackle non tirava mai indietro la gamba. Anzi, fu proprio tutto ciò che riuscì a fare lontano dall'area di rigore a consegnargli, dopo aver ricevuto la fascia da capitano da Roberto Baggio, la leadership indiscussa della Juve di Marcello Lippi.

Eppure, il primo a capire che sarebbe potuto diventare allenatore non fu il ct campione del Mondo con l'Italia nel 2006 e nemmeno Bersellini. Paradossalmente, fu Boskov - sì, proprio l'allenatore che, a differenza degli altri due, gli chiedeva di concentrarsi solo ed esclusivamente sull'ultimo terzo del campo - ad assicurare che avrebbe potuto togliersi qualche soddisfazione anche in panchina come dimostrò, poi, al Chelsea.