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Esclusiva | Parla Paolillo, ceo dell'Inter del Triplete: "Inzaghi mi ricorda Mourinho"

Ernesto Paolillo, il ceo dell'Inter del Triplete
Ernesto Paolillo, il ceo dell'Inter del TripleteMARTIAL TREZZINI / EPA / Profimedia
A pochi giorni dalla finale di Champions League contro il Paris Saint-Germain, abbiamo chiacchierato con una figura chiave nella storia recente del club nerazzurro che oggi continua a seguire la sua Inter da vicino, con la passione intatta di chi certe notti le ha vissute da protagonista.

Ceo dell’Inter nell’era d’oro culminata con il Triplete del 2010, Ernesto Paolillo ha vissuto sei anni di grandi successi, contribuendo alla conquista di ben undici trofei sotto la guida di Massimo Moratti, tra i quali la terza Coppa dei Campioni/Champions League della storia club nerazzurro. 

Paolillo è stato inoltre uno dei principali artefici del Fair Play Finanziario, lavorando a stretto contatto con l'allora presidente della Uefa, Michel Platini, con l'obiettivo di introdurre regole più sostenibili: "Non è il Psg l'unico a non rispettare le regole...". 

La finale di Champions League
La finale di Champions LeagueFlashscore

Da Calciopoli al Triplete: la cavalcata dell’Inter verso il tetto d’Europa.

"Ci fu una rifondazione totale della società, che riguardò non soltanto la parte sportiva - quindi ovviamente la scelta degli allenatori e, via via, il calciomercato, la campagna acquisti e vendite - ma anche la costruzione di una squadra che avesse le caratteristiche per diventare vincente. Si cercavano giocatori con lo stesso dna, il dna di chi è affamato, di chi vuole vincere, e soprattutto un collettivo che sapesse giocare come squadra".

Tra le mosse più importanti, lo scambio Ibra-Eto'o con il Barcellona.

"Esatto, proprio perché volevamo giocatori che giocassero per il collettivo, non per sé stessi. Erano entrambi bravissimi, certo, ma ciò che li differenziava era proprio questo: la mentalità".

E diciamo anche che, con i soldi ricavati dalla cessione di Ibrahimović, sono arrivati Sneijder, Thiago Motta, Diego Milito...

"È stata una gestione oculata delle risorse che portò alla formazione di un gruppo assolutamente vincente. Non solo ha vinto campionati e Coppe Italia, ma, nell’anno del Triplete, anche un Champions League. Non era mai sazio. Era un gruppo affamato fino in fondo. Le squadre vincenti sono così: non si accontentano mai".

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Vede questa stessa fame nell’Inter attuale? Lo Scudetto è sfuggito, la Coppa Italia pure...

"Non credo che lo Scudetto sia sfuggito per mancanza di fame, ma piuttosto per una serie di combinazioni sfortunate e negative che hanno fatto mancare i risultati nel momento cruciale. Però questi giocatori, secondo me, la fame ce l’hanno eccome. Credo sappiano bene che, per molti di loro, vista l’età, questa potrebbe essere l’ultima occasione per vincere una Champions".

Torniamo al 2010: quando capì che la sua Inter poteva vincere tutto?

"Lo capii a Kiev, in una partita in cui, a due minuti dalla fine, eravamo fuori dalla Champions. Vidi una squadra - a partire da Sneijder, che fu il trascinatore - che non voleva essere eliminata. Ribaltò il risultato negli ultimi minuti. In quel momento capii che quella squadra aveva qualcosa in più, che voleva davvero arrivare in fondo. E infatti poi lo dimostrò nelle partite successive, sia in campionato che in Champions, contro il Chelsea, il Barcellona e così via. Era una squadra che non mollava mai".

Proprio come allora, anche questa volta l'Inter è arrivata in finale dopo una semifinale epica contro il Barça.

"Esatto. Io ero a Monaco quest’anno quando la squadra ha giocato lì, e ho visto la stessa fame, la stessa voglia di andare avanti. Anche lì ho visto una squadra che non voleva lasciare nulla di intentato. Col Barcellona, poi, abbiamo avuto la conferma: combatteranno fino in fondo".

Oggi, al suo posto c’è Marotta, anche lui un vincente.

"Sì, un vincente, ma è anche un grande manager. È nel calcio da anni, ha accumulato esperienze e competenze. Devo dire che, personalmente, se la merita questa finale, perché ha costruito la squadra con intelligenza. È lui che ha scelto Inzaghi, è lui che ha gestito le campagne acquisti e cessioni, sempre partendo dalle vendite per poter poi investire".

Rivede nelle sue scelte, tra rosa e panchina, quello che lei fece lei prima del 2009?

"Assolutamente sì. E devo dire che Marotta l’ha fatto con difficoltà forse anche superiori a quelle che avevo io. Io avevo la fortuna di avere un grande presidente, illuminato e determinato. Marotta ha avuto cambi di proprietà, presidenti in difficoltà economiche come Zhang, o molto attenti alla spesa come Oaktree. Eppure, con estrema intelligenza, è riuscito a costruire questa squadra".

In che modo contribuì Mourinho al definitivo salto di qualità dell'Inter?

"Co la sua determinazione a vincere e l’esperienza internazionale. All’Inter non erano mancati allenatori bravi, ma mancava uno con una vera esperienza europea. Mourinho ce l’aveva. E ha portato una mentalità vincente. È riuscito a costruire un gruppo che voleva vincere".

Cosa ricorda della trattativa per portarlo all’Inter?

"Ricordo un episodio bellissimo. Il primo contatto con Mourinho avvenne nel febbraio di quell’anno. Gli chiesi se fosse disponibile a venire a fine stagione. L’unica sua condizione era che l’Inter si qualificasse per la Champions, perché voleva allenare ai massimi livelli. Quando ci ritrovammo a campionato finito - con l’Inter qualificata - mi ritrovai di fronte un Mourinho che parlava perfettamente italiano. Aveva passato quei mesi a studiare la lingua e a prepararsi. Quella fu la sua serietà".

Ritrova in Inzaghi qualche caratteristica di Mourinho?

"Sì, rivedo la sua capacità di costruire il gruppo. La capacità di fare squadra. Le caratteristiche tattiche sono diverse, ogni allenatore ha il suo stile. Ma a livello di gestione umana, ci sono similitudini".

Quanto sono importanti gli allenatori che riescono a trovare le parole giuste?

"Ricordo la motivazione che Mourinho diede a Eto’o prima della semifinale col Barcellona. Gli ricordò perché aveva scelto di lasciare il Barça per venire all’Inter. Gli disse: 'Ricorda perché hai lasciato il Barcellona'. Quella motivazione lo spinse a fare una partita straordinaria. Fece anche il difensore!".

Dalle corse di Eto'o, al pianto di Materazzi

Sì, è l’emblema di quello che Mourinho riuscì a costruire. Ogni persona che incontriamo ci insegna qualcosa. Mourinho mi ha insegnato che le vittorie si costruiscono nei dettagli, senza trascurare nulla.

Quando seppe che Mourinho sarebbe andato via?

"A Madrid, dopo la finale. Qualche segnale c’era, ma lui era stato bravo a non farlo pesare. Le sirene del Real Madrid lo attiravano. Aveva capito che il suo ciclo a Milano era concluso. Aveva ottenuto il massimo da quel gruppo, che era arrivato all’apice. Era tempo di ricominciare da capo, altrove. Disse: 'Con questo successo ci lasciamo'. Con eleganza, ma anche con chiarezza. Il successo c’era stato, ma la scelta era irrevocabile".

L’Inter del 2010 arrivava favorita alla finale, quella di oggi meno.

"Non credo che ci sia una vera favorita in questa finale. Sono due squadre con grandi ambizioni. Il Psg, per esempio, ha un Paese intero alle spalle che spinge da anni per vincere la Champions. Ma io conto molto su quello che ho visto contro il Bayern e contro il Barcellona: una squadra che non vuole arrendersi. E spero che questo spirito li porti a vincere".

Lei fu tra i principali promotori del Fair play finanziario Uefa. Il PSG lo rispetta?

"Il PSG, però, non è l'unico a non farlo perché c’è troppa possibilità, per tante squadre, di eluderne le regole. Anche il Manchester City lo fa, per esempio. Quando scrivemmo quelle regole, volevamo evitare crisi sistemiche nel calcio. C’erano troppi debiti tra club e ritardi nei pagamenti. Le regole hanno aiutato, hanno ridotto i debiti. Ma le sanzioni non sono state applicate con la forza che volevamo. Sono rimasti troppi spazi per le elusioni".

Luis Enrique e Nasser Al Khelaifi
Luis Enrique e Nasser Al KhelaifiJOSE BRETON / NurPhoto / NurPhoto via AFP

Quanti giocatori dell’Inter attuale sarebbero titolari in quella del Triplete?

"Sono due squadre molto diverse, fondamentalmente. Ma qualche giocatore di oggi mi sarebbe piaciuto avero anche allora, sì".

Tipo?

"Acerbi, per il suo carattere da lottatore. E Lautaro, così determinato e così leader. Gli argentini fanno spesso la differenza. Ne avevo tanti anche in quella squadra, e significò moltissimo".

Una vittoria in Champions cancellerebbe la delusione in campionato?

"Non per me! Perché lo scudetto ci è sfuggito di pochissimo. Bastava un po’ di più...".

E in caso di sconfitta in finale, quale sarebbe il bilancio della stagione?

"Un ottimo bilancio, ma non da 10. Perdere il campionato così brucia".

Qual è l'errore fatto dopo il 2010 che l'Inter non dovrebbe ripetere?

"Dopo grandi vittorie, bisogna subito pensare al cambio generazionale. Bisogna inserire giovani, altrimenti si rischia di avere un blocco di giocatori troppo anziani. E non si può cambiare metà squadra in una stagione sola. Se si aspetta troppo, si perde tempo prezioso".

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